Non ho un buon rapporto con la televisione, la seguo molto poco. Troppi giochi a premi e soprattutto programmi spazzatura come Grande Fratello, Isola dei Famosi e Uomini e Donne, messi in onda da Canale 5, che mettono in evidenza il decadimento culturale e dei valori di quel pubblico che fa aumentare l’audience e fa sì che non vengano levati dalla programmazione del palinsesto.
E così mi limito a guardare qualche film o vecchie serie televisive, in questo caso ricche di valori e sentimento, riproposte dal canale 27 Twentyseven di Mediaset e che fanno da contrappeso ai programmi trash all’emittente principe del gruppo.
Spesso rivedo volentieri La casa nella prateria e soprattutto tutti i giorni non perdo una puntata de La signora del West, la serie televisiva andata in onda negli USA dal 1993 al 1998 con il titolo Dr. Quinn, Medicine Woman, vincitrice di numerosi Emmy Award e Golden Globe e ambientata nella seconda metà del 1800 a Colorado Springs, un piccolo paese di frontiera del West, dove l’importanza dei valori della famiglia e delle tradizioni sono al centro della vita della comunità.
Sono molte le tematiche sociali trattate, come il pregiudizio nei confronti di una donna che vuole svolgere il lavoro di medico, di alcuni casi di convivenza, di famiglie di colore e di un anziano poeta omosessuale.
Anche le vicende della vicina tribù di indiani Cheyenne di Capo Pentola Nera sono al centro della storia di questa serie, sia per la loro saggezza, le continue incomprensioni con la popolazione locale e le vicissitudini per la liberazione dei loro territori fino al massacro di Washita, perpetrato dagli uomini del generale Custer, uccidendo nel sonno anche donne e bambini, fino a distruggere gli accampamenti di tende tapee e costringere gli Cheyenne a vivere in baracche di legno in una sorta di ghetto presidiato dall’esercito americano.
Finalmente una serie televisiva che ha dato risalto alla vera natura dei nativi americani, seguendo la scia di Balla coi lupi, dopo che i colossal hollywoodiani degli anni ‘60 li aveva sempre identificati come nemici della civiltà, selvaggi e assassini dei bianchi, inculcando l’idea che gli indiani fossero i cattivi.
Il genocidio dei nativi americani è stato un vero e proprio olocausto, costato la vita a circa 100 milioni di pellerossa in 500 anni di guerre. Oggi sono 567 le tribù presenti sul territorio statunitense, suddivise in 300 riserve federali e circa 130 non riconosciute e quindi che non ricevono alcun aiuto.
Ho sempre ammirato i nativi americani, la loro cultura e spiritualità legata a Madre Terra e a tutti gli essere viventi, in armonia con la natura al punto che seguivano un loro calendario lunare che iniziava nella stagione della rinascita, la nostra primavera e durava il tempo di 13 lune di 28 giorni.

Trovo molte similitudini nella loro saggezza con la filosofia buddhista e non mi ha stupito che queste due culture si siano unite nel Montana occidentale nella Riserva di Flathead.
Gochen Tulku Sang-ngag Tenzin Rinpoche, capo spirituale buddhista esiliato dal Tibet, dopo 9 anni trascorsi in prigione sotto il regime cinese, avrebbe trovato rifugio ed esilio nella riserva dove vive Stephen Small Salmon, a sua volta un capo spirituale per le popolazioni indigene.
Rimpoche nel 2000 ha progettato il Giardino dei Mille Buddha (Garden of One Thousand Buddhas), a forma di ruota a otto razze come gli era apparsa in sogno una notte, con al centro la statua di Yum Chenmo, la «Grande Madre», alta circa 8 metri con attorno 1002 statue di Buddha che fiancheggiano gli otto raggi. Gli eventi terroristici del 11 settembre 2001 sono stati un ulteriore punto di riflessione per la progettazione di questo giardino, la cui cura è affidata agli esuli tibetani.
Il Giardino dei Mille Buddha è stato benedetto anche da Small Salmon, con il rituale della salvia bruciata e il suono dei tamburi, invocando gli antenati.
Emanuela Trevisan Ghiringhelli
(crediti per il Giardino dei Mille Buddha: https://gategate.it/mille-buddha-in-una-riserva-nativa-americana/)


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