Il 10 aprile 1979 ho ricevuto la mia prima busta paga, 305.000 Lire in assegni circolari in tagli da 100.000, due dei quali consegnati ai miei genitori, in quanto mi avevano richiesto un contributo per vitto e alloggio di 200.000 Lire al mese, dal momento che avevo trovato un lavoro.
Ormai avevo ben capito di cosa dovevo occuparmi in ufficio. Oltre a gestire il centralino e servire i caffè, dovevo battere a macchina lettere e fatture, tenere aggiornato sia il quaderno del mio capo dei regali da riciclare, annotando per ogni articolo data di ricevimento e mittente, quindi la lista dei destinatari di tali omaggi, per evitare di inviar loro due volte lo stesso dono.
Poi c’erano le note per il rimessaggio di quella che il mio capo chiamava semplicemente barca, ma in realtà era un’Imbarcazione da diporto di lusso. Era un lavoro che naturalmente facevamo assieme, lui dettava ed io dovevo annotare su quattro blocchi, denominati babordo, tribordo, poppa e prua, il tutto in bella calligrafia in quanto una fotocopia di queste note doveva essere consegnata al personale del cantiere di fiducia, sito sulla sponda piemontese del lago Maggiore. Facendo questo lavoro ho iniziato a capire il brutto carattere del mio capo. Dopo poco tempo aveva la pretesa che individuassi io stessa in quale blocco dovessi scrivere la nota che mi stava dettando e se mi permettevo di chiedere timidamente una conferma, volava qualcosa dalla scrivania.
La conferma della sua irascibilità l’ho avuta immediatamente quando ero in attesa di ricevere la patente di guida. Un pomeriggio mi chiama nel suo ufficio e mi ordina: «Adesso prendi la macchina di mia moglie (una Lancia Beta) e vai ai Cantieri Riva di Sarnico a ritirare dell’alcantara per me». Prontamente rispondo che non era possibile in quanto avevo solo il foglio rosa, quindi non potevo mettermi alla guida da sola. Scomodando alcuni santi del paradiso, ribadisce che sotto la sua responsabilità dovevo farlo. Esco dal suo ufficio tremante e di getto telefono a mio padre che quel giorno era di riposo e non lavorava, gli spiego l’accaduto e lui mi dice di aspettarlo sotto l’ufficio che mi avrebbe accompagnato con la sua macchina a Sarnico e così è stato, ovviamente senza ricevere alcun rimborso spese per il viaggio in quanto è stata una mia decisione quella di non usare la Lancia Beta.
Una volta arrivata la tanto sospirata patente e dilapidati i primi soldi guadagnati per l’acquisto di una Autobianchi A112 molto datata, alle mie mansioni si è aggiunta quella di fattorino, fino a quel momento svolta dalla mia collega più giovane. Ogni mattina dovevo andare in posta e in banca, inoltre mi dovevo occupare delle commissioni personali per la Signora e dei suoi genitori, che abitavano in una casetta attigua all’officina e venivano chiamati affettuosamente da tutti nonna e nonno.
Ma a poco a poco, le mie incombenze di neo patentata aumentavano. Una volta al mese dovevo recarmi all’alba a Erba dal tosacani con lo Schnauzer e per sfruttare il viaggio, mi facevano portare anche gli stampi a nitrurare in una azienda di trattamenti termici di quella zona.
Il mio orario di lavoro era diventato molto elastico. Difficilmente lavorativo solo le canoniche otto ore, ma almeno gli straordinari mi venivano retribuiti regolarmente, cosa che mi faceva molto comodo in quanto stavamo programmando il nostro matrimonio.
Un pomeriggio, mancava poco a terminare il mio orario di lavoro alle 18:30 quando il mio capo mi ordina di accompagnarlo con la mia auto a Varese per delle commissioni. Già dal tragitto avevo capito che era particolarmente nervoso, in quanto mi spronava a bruciare i semafori gialli, oppure a sorpassare i veicoli lenti, cosa che non avevo fatto, rendendolo ancora più irascibile. Una volta arrivati in città mi dice di recarmi in Piazza Monte Grappa e di fermarmi davanti all’ingresso del negozio Nisca. Arrivata a destinazione mi dirigo verso i parcheggi, che sembravano tutti occupati e questo, scomodando sempre un paio di santi del paradiso, mi ordina di entrare con l’auto sotto i portici e di fermarmi precisamente davanti all’ingresso del negozio. Al mio tentativo di replicare era diventato incontenibile, quindi ho fatto quanto richiesto per non peggiorare ulteriormente la situazione.
Il giorno seguente ho pensato bene di vendicarmi. Mi sono procurata una boccetta di Guttalax che ho svuotato per allungargli il caffè mattutino, non sapendo che da lì a poco sarebbe uscito per presenziare a una riunione all’Associazione Industriali.
Trascorso il tempo utile per raggiungere Varese, mi telefona imprecando: «Corri dal nonno, fatti dare un paio delle sue mutande e portamele immediatamente all’Associazione Industriali. Mi sono cagato addosso in ascensore».
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso” scriveva il sommo Poeta, quindi quatta, quatta ho eseguito gli ordini e riportato a casa il nauseabondo fardello, depositandolo nel baule della Lancia Beta.
La situazione continuava a peggiorare e ben poco mi risollevavano i suoi biglietti di promemoria che sembravano usciti dal quaderno di Pierino, del tipo quando scriveva alla cartolaia “signora D’Aria”,
Nel 1981 ci siamo sposati e quando ho portato loro la bomboniera, porgendomi il quaderno dei regali da riciclare mi ha detto «Scegli quello che vuoi». Sebbene c’erano diversi articoli che potevano farmi comodo, non ho voluto dargli la soddisfazione e dopo averlo sfogliato attentamente, gli ho risposto che avevo già tutti i casalinghi presenti nella lista. Scocciatissimo, ha messo la mano in tasca e mi ha buttato il malo modo 50.000 Lire.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il ricovero in ospedale della sua anziana mamma e la pretesa che la sera, terminato il lavoro in ufficio, andassi ad accudirla fino alle 20:30 e occasionalmente anche durante la giornata. Non era possibile replicare e tanto meno rifiutare un incarico, così dopo un paio di giorni mi sono messa in malattia. Già da tempo accusavo dei malesseri che in seguito si sono rivelati psicosomatici e che altro non erano che il campanello d’allarme che stavo covando un esaurimento nervoso, palesatosi nei giorni seguenti. Era la fine del 1983, avevo rifiutato a priori cure con psicofarmaci e solo grazie alla mia buona volontà e al grande supporto di mio marito ne stavo uscendo, ma al solo al pensiero del mio imminente rientro al lavoro, ripiombavo nel buio più completo.
Alla fine l’unica via per la guarigione era dimettermi e così ho fatto.
Ma non finisce qui. Domani l’epilogo!
Emanuela Trevisan Ghiringhelli


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