Non ho molti ricordi lucidi della mia infanzia, solo alcuni brevi episodi, talvolta piacevoli ed altri che riaprono inevitabilmente delle ferite nell’anima, ma c’è n’è uno che posso descrivere come se l’avessi vissuto ieri, limpido e che mi trasmette sempre incantevoli sensazioni .
Correva l’anno 1966, e i miei zii Alfredo e Gina, con i quali convivevo sin dalla nascita, decisero di trasferirsi in Svizzera, precisamente a Piotta, in Val Leventina, località famosa soprattutto per la famosa squadra di hockey dalla lunga tradizione sportiva. Stavano per aprire un negozio di parrucchiere nella vicina Airolo, località ai piedi del Passo del San Gottardo nota meta sciistica del Canton Ticino.
Ricordo ancora quando arrivai per la prima volta a Piotta con le mie due valigette. Percorrendo la strada cantonale osservavo le case ai lati, cercando di indovinare quale fosse quella che mi avrebbe ospitato fino ad ottobre, quando avrei dovuto rientrare in Italia per iniziare le scuole elementari. Era marzo, avevo davanti ancora molti mesi e in cuor mio coltivavo la speranza che gli zii avrebbero trovato il modo di non farmi tornare a Milano in autunno.
Ecco che la Fiat 124 azzurra dello zio svoltava in un piccolo rientro sulla sinistra fermandosi nel parcheggio di una casa bianca a tre piani, costruita attaccata alla roccia della montagna e subito cercavo invano di capirne il motivo. L’ingresso era lungo e stretto e conduceva alla scala in fondo. Gli zii mi mostrano subito cosa c’era dietro alla porta vicino all’entrata, un ampio e lungo locale adibito a lavanderia, con fili stesi in tutta la lunghezza dell’attiguo corridoio per stendere la biancheria, tre grandi lavandini a due vasche con tanto di asse in sasso per lavare a mano e accanto una lavatrice, elettrodomestico mai visto in precedenza, una Miele, nome che mi era rimasto impresso perché si chiamava come il miele e ovviamente la pronunciavamo tutti all’italiana. Appesa sopra la lavatrice c’era una lavagna dove, accanto al nome di ogni famiglia, erano indicati i giorni e orari in cui poteva usare l’elettrodomestico.
Ancora basita per questa lavanderia condominiale e non immaginando ancora cosa mi aspettasse una volta varcata la soglia di casa, salimmo i tre piani di scale. Una volta entrati nell’appartamento il mio stupore era tutto per l’ampio locale in cui mi trovavo, che fungeva da cucina, sala da pranzo e soggiorno, nulla di nuovo ai tempi nostri in cui l’open space va per la maggiore, ma stiamo parlano di quasi sessant’anni fa. Improvvisamente la mia attenzione fu catturata, alla mia sinistra, da una grossolana porta in assi di legno con un chiavistello in ferro che la teneva saldamente chiusa. Sorridendo, lo zio mi chiese di indovinare cosa ci fosse dietro quella porta e ingenuamente risposti una stalla. Ci fu una risata generale e quando lo zio la aprì, lo stupore che avevo provato pochi minuti prima a pianterreno non era nulla in confronto a ciò che stavo provando: mi trovavo di fronte a una sorta di grotta nella montagna, larga poco più della porta e profonda altrettanto, adibita a frigorifero “naturale”. Entrai e notai che la temperatura era notevolmente più fredda di quella all’esterno, quasi tremavo sebbene avessi ancora addosso il cappottino, guanti e cappello e per un attimo pensai che forse stavo provando la stessa sensazione di stupore di Alice nel Paese delle Meraviglie quando arrivò alla fine del pozzo nel quale era caduta. Per farmi riprendere, lo zio prese una strana pentolina cilindrica in alluminio con coperchio a pressione e un filo di ferro attaccato ai lati dell’apertura con una maniglia di legno al centro. Chiuso il “frigorifero”, prendemmo posto a tavola, dove una volta aperta la pentolina, lo zio mi mostrò uno spesso strato di panna sul latte sottostante, che prelevò per la cioccolata calda che zia Gina aveva preparato nel frattempo. Non avrei mai potuto immaginare un’accoglienza migliore nella mia nuova casa. Non restava che andare alla scoperta degli altri locali: la camera matrimoniale degli zii, un confortevole bagno con vasca e doccia separata ed infine la cameretta, stretta e lunga con due letti uno in fila all’altro per me e zia Nanda.
La vita a Piotta mi piaceva molto, ogni mattina andavo a piedi da sola a prendere il latte fresco nella vicina baita in legno, dove una dolcissima signora molto anziana mi riempiva la famosa pentolina cilindrica con il latte che prelevava dal mastello in legno come il mestolo che usava. La pagavo con una moneta che mi dava zia Nanda, ma non ne ricordo il valore.
Quando la sera gli zii tornavano dal negozio portavano sempre una tavoletta di cioccolato, sempre di marca diversa per farmi assaggiare tutti i gusti, che ci dividevamo il giorno seguente a colazione. Un paio di volte zio Alfredo mi portò a vedere anche l’Ambrì-Piotta, non che fosse interessato all’hockey su ghiaccio, ma desiderava farmi vivere tutte le emozioni di quella magica valle e la cosa non mi dispiaceva affatto.
Indimenticabile è stata quell’estate del ’66, quando spesso accompagnavo lo zio a pesca nei laghetti dell’alta Val Leventina. Lasciata la macchina Lago Ritom, ci incamminavamo su per il sentiero fino a raggiungere il lago predestinato in quella giornata. Nonostante l’alzataccia mattutina, mi pareva di vivere in una favola, in mezzo alla natura, circondata dalle montagne e allietata dai fischi delle tante marmotte. Purtroppo il mio sogno di rimanere per sempre a Piotta non si realizzò e a fine settembre con zia Nanda ritornai nella grigia Milano e per la prima volta nella mia vita a casa dei miei genitori.


Circa trent’anni dopo sono tornata nell’idilliaca Val Leventina. Con Fulvio e suo cugino Gipo abbiamo fatto un’indimenticabile escursione di trekking che ci ha portato dal Lago Ritom alla Capanna Cadlimo, passando accanto a meravigliosi specchi d’acqua alpini: Lago di Tom, Laghetti di Teneda, Lago Scuro e Lago di Dendro.
Di ritorno avevo chiesto a Fulvio di non entrare subito in autostrada a Quinto ma di percorrere un pezzo di cantonale sino all’entrata di Faido per rivedere i luoghi che mi avevano fatto vivere come Alice nel Paese delle Meraviglie.
Emanuela Trevisan Ghiringhelli


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