Auguri Lombardia!


Oggi si celebra la Festa della Lombardia, giornata che coincide con l’anniversario della Battaglia di Legnano contro le truppe del Barbarossa, il 29 maggio 1176 quando in questa storica battaglia la Lega Lombarda sconfisse l’esercito del Sacro Romano Impero Germanico, combattuta nelle località di Legnano e Borsano.
Sono nata e ho sempre vissuto in Lombardia, amo la mia regione che reputo bellissima e sento il bisogno di farle un regalo per questa ricorrenza.
Cercando tra i file audio di RAI Teche – molto più di quanto ricordi, ho trovato la registrazione di una bellissima trasmissione di Rai Due del 1955, VIAGGIO IN ITALIA – LOMBARDIA E MILANO, a cura di Guido Piovene e Nanni Saba, una narrazione quasi romanzesca che non può che emozionare chi in queste terre è nato o vissuto.
Ho voluto “sbobinare” questa trasmissione radiofonica della durata di circa 25 minuti, comprese le sigle iniziale e finale, tratte dallo splendido Capriccio Italiano di Pëtr Ilič Čajkovskij. Avrei potuto fermarmi alla sola Lombardia, tagliando la parte che riguarda Milano, ma vi sono nata e comunque, senza nulla togliere a tutte altre meravigliose città, grandi e piccole, Milano è un pò il simbolo della Lombardia.
Buona lettura!

Napoli è la Campania, il Lazio è Roma, la Lombardia non è Milano. Non lo è di fatto, ma i lombardi, il bergamasco, il cremonese, il bresciano, rifiutano anche di porsi sotto l’etichetta unica della città maggiore. Questo si deve in parte alla mutevolezza, alla fluidità dei confini della Lombardia nella storia.
Bergamo e Brescia, per esempio, furono a lungo venete, la Valtellina fu lombarda solo con i Visconti e Mantova sta a sé, tanto che esiteremmo a definirla interamente lombarda. Inoltre le caratteristiche variano.
A Milano e intorno a Milano la Lombardia è la più potente regione industriale italiana, altrove, come a sud di Milano e nel cremonese, è una regione agricola, anzi la più fertile delle nostre regioni agricole.
Ma il principale motivo per cui ogni città lombarda rifiuta di lasciarsi riassumere nella metropoli, si deve ricercare proprio in ciò che le accomuna tutte, l’essere fondamentalmente commerciali, industriali e affaristiche. Vivono in uno stato di concorrenza come tra un’azienda è l’altra.
Il caso più tipico è Brescia, che continua a difendersi dalla forza del capitale milanese con un tenace spirito comunale, il cui incentivo risiede nell’economia.
Raccolti intorno a molti centri rivali, i lombardi però si distinguono con facilità da tutti gli italiani, anche da quelli delle regioni finitime. Percorsa da tre fiumi, il Po, l’Adda, e il Ticino e da alcuni fiumi minori, listata a nord da grandi laghi che, oltre a regolarne il clima, servono da bacini naturali d’irrigazione, alimentando il più cospicuo sistema irrigatorio d’Italia, la Lombardia è la regione più adatta a suscitare e sostenere un popolo ricco di talento pratico.
Il dramma della Lombardia è d’essere, in una nazione tra le più povere d’Europa, una delle regioni più ricche d’Europa. La stessa densità della popolazione lo mostra. La Lombardia copre il 7,6% del territorio italiano ma conta il 15% dei suoi abitanti. Di qui le controversie con il resto della penisola.
É radicata nei lombardi la convinzione di mantenere con il loro lavoro regioni meno attive o meno favorite dalla natura e di essere costretti a profondere i loro beni in fatti che non li riguardano.
Tale convinzione si aggrava nelle attuali circostanze. L’immenso contributo pagato all’assistenza dagli industriali milanesi e lombardi, va solo in parte a loro vantaggio. La Lombardia come l’America preferirebbe metodi più diretti, interventi più personali, un circuito più stretto.
Malgrado l’alta percentuale operaia e i forti nuclei comunisti, la Lombardia resta fondamentalmente una regione di borghesi. Ben diversa dal Veneto che conserva un suo fondo tra patriarcale e clericale, ma anch’essa conservatrice a modo suo.
In una Lombardia isolata, il comunismo avrebbe scarse possibilità di vittoria e troverebbe dovunque un limite e un argine. La Lombardia borghese contempla con un certo sgomento il resto del paese, dove il comunismo in gran parte è alimentato da campagne che si risvegliano, da movimenti fideistici e da folle agli albori da una coscienza politica, cosa che in essa non esistono.
Spremuta da bisogni e da ideologie che le sono lontane, che non approva, messa a repentaglio da folle emiliane o pugliesi, vive nell’ansietà di essere portata a fondo per debolezze e per follie altrui. S’intende che il vincolo della Lombardia con il resto dell’Italia è strettissimo e comuni le sorti, ma io volevo spiegare il perché dell’eterna polemica tra Milano e Roma e anche perché lo slancio degli investimenti lombardi verso il sud dell’Italia sembra essersi rallentato, fino a far supporre ad alcuni un declino del ceto dirigente lombardo e del suo proverbiale spirito d’iniziativa.
Patriottica, la Lombardia volle l’unità d’Italia, anche per ritrovare nella penisola un mercato e una base stabile al suo sviluppo industriale. Questo scopo fu raggiunto a vantaggio di tutti, ma generò di rimbalzo il risentimento cronico di un popolo industre, sensato e poco permeabile dalle ideologie. Non è comodo essere ricchi in un paese di poveri.
Prima di continuare vorrei liquidare un luogo comune, che la Lombardia sia meno bella dal resto dell’Italia. La Lombardia è bellissima, benché di una bellezza meno rigorosa e chiusa e perciò più difficile da intendere a prima vista di quella veneta e toscana. Al nord sono i laghi, diversi da tutti gli altri laghi, compresi gli svizzeri, d’una severità meditativa, ma ammorbidita dagli aromi versati dai giardini delle antiche ville. Guardano dalle alture i santuari eretti dalla controriforma, quasi a fermare l’invasione della protesta scendente dalle valli svizzere. Le loro campane hanno un suono grave, da monastero longobardo.
Nel bergamasco e nel bresciano la severità lombarda che fornisce i colori, sposa la mollezza veneta che fornisce i contorni. A sud e nella bassa batte il cuore della Valpadana.
In queste terre percorse da fiumi e da rogge, si avverte la misteriosa vita delle acque che rigano il sottosuolo con le loro correnti, terre grasse ed insieme spiritate, dai cibi succulenti, dai contadini avvolti in un tabarro nero che emergono dalle nebbie bianche conducendo i buoi.
Dai pingui soli, dalle lune purpuree che si affondano tra i filari. É il cuore della Padania con le sue chiese barbariche e le sue officine. La Padania, terra ideale ma amata quasi come patria da quelli che vi nacquero o vi abitarono a lungo, dalle cui zolle si sprigiona un profondo senso del sacro.
Può darsi che i Lombardi, uomini pratici, siano spesso distratti dalla speciale bellezza del loro Paese e infatti essi non lo decantano mai, preferendo trovarlo comodo che poetico. In realtà se ne alimentano senza saperlo, simili ai loro campi con l’acqua dei fiumi, come dimostra l’amore che gli portano.

Così occorre sfatare un secondo luogo comune, quello che sia brutta Milano, da cui questo nostro giro per la Lombardia comincia. Si dice che sia una città utilitaria, continuamente demolita e rifatta secondo le necessità del momento, non riuscendo perciò mai a divenire antica. É vero che ogni fase storica segnò Milano di brutture, il regno agli inizi le dette quella piazza del Duomo che è stata definita una coreografia monumentale di gusto bancario. Allo stile bancario si sovrappose più tardi lo stile fascista, con le sue distruzioni, le sue tronfiezze, i suoi marmi, i suoi archi vanitosi. Più tardi ancora un certo americanismo chimerico, più americano dell’America, con i suoi grattacieli e i suoi giocattoli meccanici.
Pure, Milano è bella. Chi la percorra con amore vedrà come persistano, nonostante le offese, i suoi motivi antichi che i frettolosi non avvertono. É la basilica romanica, Sant’Ambrogio, Santo Eustorgio, sono le impronte del Bramante, Santa Maria delle Grazie col chiostrino, San Satiro e il Monastero Maggiore, sono i musei tra i più belli d’Italia. Brera per primo poi il Castello Sforzesco, l’Ambrosiana, il Poldi Pezzoli. É il neoclassico milanese come si vede ancora nel quadrato di vie presso Montenapoleone, un neoclassico più amabile del francese, più colorito, una grazia settecentesca che sembra portare in città il nobile aroma dei laghi e delle colline brianzole. Sono anche sparpagliati, sconquassati, asfissiati dalla Milano utilitaria gli innumerevoli avanzi di vecchi quartieri che non riescono a morire, anzi si fanno luce come arbusti contorti tra i cementi ed i marmi. Oppure è soltanto la vecchia cartoleria, la vecchia pasticceria che ci riportano al De Marchi.
Lo stesso Duomo non è certo un modello di purezza nell’architettura, ma bisogna vederlo come una seconda città, un’altra Milano ideale proiettata nella sua fabbrica, una passione cittadina perpetua che di secolo in secolo si riflette in quei marmi e non riesce mai a concludere. In questo senso, nessun altro Duomo del mondo può essere paragonato al grande edificio sentimentale, carico di sospiri, che porta sulle vetta una Madonnina d’oro. E la bellezza di Milano si può cogliere forse qui.
A Milano si esce dalla bellezza sigillata da altre città italiane, da quella bellezza conclusa che spesso è limite, prigione per chi vi dimora, di fronte alla cui compiutezza si è condannati alla sterilità. Qui il bello è soprattutto stimolo e l’animo ritrova la libertà di vivere e d’inventare.
Vi è a Milano qualcosa d’incompiuto, quasi una turgidezza sentimentale che rende patetici i suoi caffè le sue banche, i suoi palazzi umbertini o novecenteschi, i rumori dei tram. Patetiche come le lune e i soli della bassa, le tinte della pubblicità luminosa.
É stato detto che Milano, più che una città italiana, è una città della mittel Europa e anche questo non è giusto. Milano è piuttosto un’immensa borgata in continua trasformazione al centro della Valpadana. Tra palazzi ed officine, proprio come in un borgo, penetra il soffio denso del piano, dei colli, dei fiumi ed anche, si direbbe, il profumo dei parchi gentilizi della Brianza. Le nebbie bianche avanzano sulla grande arterie fino alla cattedrale, avvolgendola come in un fumo.
Altre città sono più belle nel significato comune, ma nessuna è più cara, più feconda ed arcana. In questo soffio sacro che non avverte, Milano conduce la propria vita, pratica, spesso prosaica di città dedita al commercio e alle industrie.
Come la Lombardia tra le altre regioni essa vive il suo dramma di metropoli ricca in una nazione povera. Milano consuma per individuo più carne che la Svizzera e la Germania occidentale, più grassi che la Francia e ben oltre il doppio di carne della media italiana. Spende quattro volte la media italiana in divertimenti, ha il più alto reddito medio, 350 mila Lire per capita, detiene il 12,5% del reddito italiano, mentre la popolazione è solo il 5,35%.
Milanese è oltre un sesto del reddito commerciale e industriale italiano. La provincia produce tutto, dai tessili agli alimentari, dalla siderurgia ai prodotti chimici. Ha i più grandi mercati di bestiame, di carne macellata, di pesce, d’uova e di pollame, di prodotti ortofrutticoli e vi affluisce anche merce d’oltralpe. La sua Fiera Campionaria è la maggiore d’Europa, vi concludono affari non solo gli italiani con gli stranieri, ma anche gli stranieri tra loro. Di recente gli Stati Uniti, volendo istituire qualcosa del genere in casa propria, hanno inviato a Milano una commissione di esperti per studiare l’organizzazione della Fiera.
A nord la città si prolunga in una costellazione di centri industriali che però vivono di vita propria. A sud le più ricche cascine, centri agricoli meccanizzati.
Si può chiedere come, essendo la città più ricca d’Italia, Milano non sia anche la più popolosa. La ragione è che gli immigrati non si raccolgono tutti nella metropoli, ma si dirigono in eguale misura verso i centri vicini: Monza, Sesto San Giovanni, Seregno, Desio, Meda, Cusano Milanino, Rho, Parabiago, Legnano, Magenta, a cui si si legano senza interruzione i centri industriali di altre provincie specie quelli di Varese e di Como. Guardando tuttavia l’intera costellazione, Milano è di gran lunga il complesso urbano più importante d’Italia.
La prossimità di una grande popolazione urbana, divisa in molti centri ma nel raggio di poche decine di chilometri, fa sì che il più grande giornale milanese sia anche il maggiore d’Italia e che le imprese editoriali, d’Arte e spettacoli possano contare su un pubblico non soltanto metropolitano.
Così la Scala, non solo semplice teatro, ma come il Duomo passione e gloria della città, appaga l’amore per il melodramma di tutta la valle del Po.
Il milanese ha un fondo semplice, proprio per questo non bisogna guardarlo con semplicismo, né ricorrere per giudicarlo ai luoghi comuni delle macchiette nel varietà. Che sia lavoratore, tutti lo sanno, andare a “butega”, qualunque sia, è la sua felicità. A meno che la sera e un mese all’anno al mito del lavoro subentri il mito gemello, quello del divertirsi. Allora si hanno le vacanze rumorose e esplosive dei milanesi popolanti le spiagge, gli alberghi di montagna e le case da gioco. Si può notare anche un miscuglio di tradizionalismo e di americanismo poco consueti in Italia, quell’americanismo un pò provinciale e il futurismo nelle sue diverse edizioni.
É questa l’unica città in cui non si abbia la mania delle lauree e in cui non si chiami cultura solamente quella umanistica ma anche la cultura tecnica.
Frequente è il passaggio da un grado all’altro della scala sociale. Il fattorino che diventa capo d’industria è un esempio caro ai milanesi, sebbene oggi sia più difficile. In questo vanto del farsi da sé e venire dal nulla, Milano ha un fondo bonario, sentimentale, che l’America non conosce.
Per contrasto, le aziende milanesi sono cariche di diversi dipendenti inutili, simili ai servitori delle grande casate che non si licenziano per ragioni di cuore. Saper produrre e aver cuore. Questa città così moderna ignora una caratteristica del moderno attivismo che è la crudeltà.
Nelle iniziative benefiche è sempre in testa, la figura più tipica della sua borghesia media rimane il ragioniere, perno della buona gestione commerciale, garante dei conti che tornano. Il popolo lo stima più di un professore, tanto che usa dire: «Il tale ha preso la laurea di ragioniere» sebbene sia semplicemente un diploma.
Il milanese è anche risparmiatore perché ha mente economica, tuttavia agli estranei sembra che esibisca la ricchezza. All’opposto del genovese e del torinese che tendono a nasconderla per farsi credere meno di quello che sono, il milanese ha della sua ricchezza un concetto pubblicitario.
Un industriale, la cui amica soubrette gli aveva chiesto del danaro da un’altra città d’Italia, mi fece questa confidenza: «Le ho mandato un assegno insieme a una pacard di caviale e champagne»
Ma l’esibizionismo dei milanesi è utilitario, aiuta ad estendere il credito, ad aumentare la fiducia del pubblico. In realtà non v’è popolo più riservato, più geloso di sé stesso e del suo. I famosi “danè” sono spesso uno schermo per tenere lontano ogni sguardo indiscreto ed è difficile passare dall’intimità commerciale, bancaria o festaiola, all’intimità vera.
Nella mia inchiesta ho constatato spesso, quanto temano certi milanesi un’intrusione altrui nei loro interessi ed un contatto personale. Qui l’esibizionismo cede il posto a una specie di orrore per l’occhio del pubblico, “i miei affari riguardano soltanto me”. A questa gelosia di sé, si deve la povertà di vocabolario nei discorsi dei milanesi, si giovano per lo più di poche frasi fatte e neutre. Cercano di rialzarne il tono incastrandovi con curioso effetto alcune parole pompose e scientifiche, non è un linguaggio adatto alle effusioni.
Ma forse “il la” mi è stato dato da un dialogo con il duca Tommaso Gallarati Scotti, scrittore, diplomatico ed una delle grandi figure del patriziato antico. Il dialogo si svolgeva in un palazzo silenzioso, con soffitti del Tiepolo, quadri del Bramantino, del Solario, di Cesare da Sesto, del Borgognone, del Magnasco, tappezzerie settecentesche. Il duca parlava del Manzoni, della sua fede così ardente ma così discreta, che alcuni la ritennero tiepida e la scambiano per semplice devozione. Ecco le sue parole: «Le vicende dell’animo del Manzoni di fronte a Dio ebbero certamente fasi drammatiche, ma il dramma è chiuso nell’austero riserbo dell’uomo religioso e del genio. Sappiamo che si convertì e la sua conversione illumina interamente la sua vita e la sua arte. Ma v’è tutto un lato di essa che rimane segreto perché Manzoni tale volle rimanesse e che tormenta la critica e l’indagine psicologica degli studi manzoniani. E anzi proprio questo segreto che ha resto così appassionante negli ultimi vent’anni, il problema di Manzoni uomo e di Manzoni poeta».
Mi era chiaro ascoltandolo, che Gallarati Scotti portava nel discorso anche la propria ripugnanza per l’esibizione, il suo riserbo aristocratico. Qui coglievo il principio nei suoi aspetti più alti, ma esso si scioglie per i rami di questa società liberale e borghese, prendendovi tutti gli aspetti, fino ai comuni, agli spiccioli ed ai volgari. So di un aristocratico milanese che dopo un bombardamento aereo, vietò ai pompieri di salvare i suoi mobili ed i suoi quadri: «Quella l’è roba mia e ne faccio ciò che voglio». Qui si ricollegano certi leit motiv milanesi così uniformi in una società eterogenea. Penso con la mia testa: «Questa l’è casa mia. Lasciatemi cuocere nel mio brodo. Il governo non c’entra».
Milano è liberale d’indole, ha un culto per l’iniziativa privata e per l’opera dei privati. Tre grandi scuole, il Politecnico, l’Università Bocconi che fornisce i commercialisti e l’Università Cattolica, nacquero da intraprese estranee allo Stato. Così altri istituti, il Feltrinelli per esempio, il Cavalli Conti, le ottime scuole artigianali, i nidi d’infanzia, le scuole Montessori.
Nei rapporti con lo Stato il milanese, uomo d’ordine, è tutt’altro che conformista. Tanto più che per lui lo Stato si identifica con la burocrazia romana, incapace di seguire agilmente gli interessi di Milano, la capitale industriale e commerciale. Uno in uno sfogo si espresse con me così: «L’è una bestia, vogliono venire a insegnare a noi, loro hanno tutto da imparare».
La massima “politique d’abord” non ha corso a Milano. Il milanese pensa che producendo la ricchezza, egli compia l’unico ufficio veramente importante e padronale. La capitale, il governo, i ministeri, sarebbero in un certo senso i suoi delegati ad un compito amministrativo che lui non ha né la voglia né il tempo di svolgere direttamente. Ma non devono intralciare Milano, cioè i suoi produttori per ragioni politiche. Da questa convinzione deriva la forza ma anche la debolezza della borghesia milanese. Quando lo Stato smette di essere un servizio utile, si diffonde il pessimismo, la tendenza a cercare qualcuno un “brosseur” politicante incaricato di difendere i produttori dal nemico.
Scontento dallo Stato ma poco disposto ad uscire dagli affari per farsi Stato e per diventare così l’amministratore di sé stesso, il milanese sconta tutte le amarezze e i guai di un tempo in cui la politica domina.


Milano è una città da non guardare a freddo, bisogna tuffarvisi dentro, scoprire quei vecchi palazzi sopraffatti dalla marea dell’edilizia nuova ed in cui tuttavia vivono famiglie chiuse. Saloni scuri dall’arredamento pesante, con stucchi, cornici dorate, tendaggi, tappezzerie di broccato, saloni che vorrei chiamare controriformisti, simili a sacristie barocche. I quartieri di periferie e i quartieri popolari, o come Corso Buenos Aires, quartieri qualunquisti, rumorosi, affollati, pari a grandi bazar con i negozi alimentari e di venditori cinesi e di venditori di tappeti di Monza che si fingono turchi.
Allo spirito della Lombardia qui sembra mescolarsi un pizzico di levantino. Le divisioni della società milanese, come sono tracciati dai cronisti mondani, assomigliano a quelle di New York e in genere delle città in cui urgono strati nuovi, avidi di salire, sempre tenendo conto che questo è intriso nella buona pasta lombarda. Si ha la rosa delle famiglie della aristocrazia più aulica, come quelle in America giunte con le prime navi di sangue olandese o inglese, chiamate dai cronisti mondani “il cappuccio”. Chiuse, religiose, benefiche, hanno belle ville in Brianza, belle case in città, parlano compiaciutamene il dialetto, vivono con semplicità. Le ragazze si vestono con abiti poco vistosi di confezione casalinga. I tè delle signore spesso ruotano attorno a un prete di moda, predicatore in casa e direttore di coscienza e si mutano in conferenze o dialoghi edificanti.
Da queste altezze si diffonde la passione benefica, necessaria per penetrare nella società milanese, che a quanto dicono quei cronisti mondani, si arrende solo a due argomenti abbinati ed inseparabili, partecipare alle opere di beneficienza e dare bene da mangiare.
Sciamano legioni di patronesse, anziane e giovani, attivissime, ghiotte di orfani, di ragazze madre e di mutilatini. Si raccolgono in associazioni come “L’ape industriosa” il cui nome grida “Milano”.
L’aristocrazia milanese, dandosi agli affari, si è borghesizzata da tempo, convive senza scosse nel giro dei grandi industriali con altre illustri famiglie di formazione più recente. Su questo fondo ondeggia quella che a New York è definita “società del caffè”, la più appariscente e gaudente, spregiudicata nel linguaggio e vistosamente vestita. Una sua speciale sezione è avida di modernismi, sociali architettonici, artistici, musicali, tutta tesa a fiutare le idee che vengono dalla Svezia o dal Canadà. Combatte un duello incruento con gli altri per amore di Picasso e di Le Corbusier, che gli altri invece aborrono. Rampolli dell’alta borghesia milanese sono perciò i più audaci tra gli architetti razionali.
Ma queste distinzioni sono apparenti e le diverse società si spandono una nell’altra e trasmutano una nell’altra.
Famiglie nere e impenetrabili, gioventù mondana, futuristi e industriali, formano un impasto abbastanza omogeneo: la borghesia milanese, unica al mondo.
E tutto insieme si confonde in una grande babilonia vitale di palazzoni luccicanti, di quartieri sventrati, di magazzini, di ragazze d’ufficio, di agenti di borsa, di ragionieri, di commercianti, di caffè, di ristoranti e nell’aroma collettivo del risotto giallo. Quella cucina butirrosa, succulenta, materna, anch’essa si direbbe imbevuta di sentimento, anch’essa pregna della sapore delle pianure pingui, coperte di nebbia.

Tanti auguri mia Lombardia!

Emanuela Trevisan Ghiringhelli

(https://www.teche.rai.it/1955/01/viaggio-in-italia-lombardia-e-milano/)

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