“Cosa ne facciamo del vecchio acquario?” era scontato che ci ponessimo questa domanda dopo aver regalato pesciolini, piante acquatiche e svuotato la vasca. Non mi piaceva l’idea di mettere un annuncio su qualche sito di compravendita dell’usato, quindi ho pensato di sfruttarlo come teca per un terrarium, creando da sola un microambiente autosufficiente, manco a dirlo, in stile Zen.
Il terrarium è un’invenzione casuale del botanico britannico Nathaniel Bagshaw Ward, quando una sera d’estate del 1829 trovò una crisalide di falena e la pose in un vaso di vetro sul cui fondo aveva messo un pò di terra e chiuse il barattolo con un coperchio per far sì che potesse nascere la falena da lì a qualche giorno.
Trascorso un pò di tempo controllò attraverso il vetro e con grande sorpresa non vi trovò l’insetto, bensì della muffa dalla quale era spuntata una Felce Fern.
Il botanico intuì quindi che una pianta era in grado di condurre autonomamente il proprio ciclo di vita in un vaso di vetro chiuso ermeticamente, inventando quindi la cassa di Word (Wardian Case), il primo terrarium della storia, che permetteva ai commercianti di piante esotiche di farle arrivare in Europa grazie al contenitore che ricreava il loro habitat naturale.
Da qualche mese abbiamo due terrarium, un’ampolla piccina acquistata all’Esselunga e una graziosa composizione in un grande barattolo di vetro che ho trovato alla Fiera dell’Oriente, entrambe posizionate nell’ambiente più luminoso della casa, il bagno, sotto un velux. Non le ho mai aperte e le belle piantine di Hypoestes phyllostachya, dalle foglie rosse variegate, crescono rigogliose.

La teca di quello che era il nostro acquario è stata posizionata in un angolo piuttosto buio del soggiorno, ma grazie alla plafoniera led regolabile in dotazione, che simula la luce del giorno dall’alba al tramonto, il problema non sussiste.
Giovedì scorso ho dato vita al mio giardino Zen, cercando di riprodurre uno scorcio di Bodh Gaya in India, dove si trova l’albero della Bodhi, l’antico e sacro Ficus religiosa sotto il quale Siddharta Gautama raggiunse l’illuminazione.
Ho quindi procurato dell’espanso, con il quale ho fatto uno strato spesso sul fondo e l’ho ricoperto di terra. Nell’angolo sinistro ho posizionato un ficus bonsai ricoprendo la superficie attorno di Akadama, “il terreno a palle rosse” di argilla di origine vulcanica, al centro ho messo una statuetta di Buddha, a destra due pietre rosa con tre piantine, due Hypoestes phyllostachya e una Fittonia albivenis. Ho decorato quindi il fondo con ghiaia bianca e alcuni sassi vulcanici grigi rotondi.
Prima di chiudere la teca con il suo coperchio ho dato una generosa spruzzata con acqua osmotica fertilizzata che ho tenuto da parte al cambio dell’acqua dell’acquario.
Questa settimana è trascorsa osservando più volte al giorno questa mia creatura, guardando attentamente tutti i germogli e le foglie per assicurarmi che non seccassero.



Non mi sarei mai aspettata, a distanza di sette giorni, di veder sbocciare quattro bellissimi fiorellini di Hypoestes phyllostachya, tre bianchi e uno lilla. Il nome di questa pianta, originaria del Madagascar, deriva dal latino hypo che significa “sotto” ed estia che significa “casa”, riferendosi al modo in cui i calici dei fiori sono ricoperti dalle brattee fuse. La bella piantina dalle foglie variegate verdi e rosse, che nel linguaggio dei fiori significa prestigio e benessere. Nel Regno Unito si è guadagnata il prestigioso marchio di qualità Royal Horticultural Society Award of Garden Merit, che viene assegnato grazie alla forma, il colore e la robustezza della pianta.
Emanuela Trevisan Ghiringhelli
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