Ben arrivato inverno! Oggi voglio proporre uno scritto condiviso da Elena Paredi sulla sua bacheca di Facebook sulle origini delle antiche tradizioni legate al solstizio odierno e un bellissimo racconto tratto da uno dei tanti libri scritti dal suo amato papà.
Prima che subentrasse il Cristianesimo nel nostro territorio, si era soliti festeggiare Alban Arthuan, il Solstizio d’inverno, che avveniva tra il 21 ed il 22 di dicembre, secondo il calendario gregoriano. Questo giorno segnerà l’inizio del solstizio di Inverno, portatore di una Luce rinnovata, che da ora in poi riprenderà lentamente il suo cammino verso la sua esaltazione massima.
Uno dei simboli per eccellenza di questo periodo, nella tradizione celtica, è rappresentato dal Cervo.
In questo periodo, chiamato in gaelico “Alban Arthuan”, le popolazioni celtiche celebravano la rinascita del Sole identificato con il dio Belenos o Beli.
Alban Arthuan o Yule nel mondo germanico, indica quel periodo durante il quale si celebra il giorno più breve dell’anno e della lenta rinascita del Sole, della vittoria della Luce sulle Tenebre. In questo periodo abbiamo una lenta rinascita che vedrà il suo periodo di esaltazione con l’equinozio di Primavera.
L’usanza di addobbare l’albero di Natale ha origini ancestrali che ci giungono dalla più pura tradizione celtica e nordica. È l’albero “della notte consacrata”.Assieme al 24 giugno, San Giovanni, il giorno più lungo dell’anno, il Natale rappresenta una tappa fondamentale nel ciclo annuale del sole e della Natura; la prima è il solstizio d’estate, quando il sole tocca il punto più alto allo zenith; il secondo, il solstizio d’inverno, quando l’astro scende al punto più basso. Accendere i fuochi in quei giorni ha sempre significato celebrare la potenza del Sole al massimo del suo splendore (estate) e invocare la sua rinascita dopo il profondo buio dei giorni invernali più corti. A giugno la festa collettiva si svolge all’aperto, in inverno racchiusa nel cerchio familiare col freddo di fine dicembre.
L’usanza di ardere il ceppo di Natale, tradizione legata ancora oggi alle feste natalizie, nacque per onorare la Dea Madre Bride, conosciuta nelle nostre terre col nome di Belisama.
A Milano quest’ultima festa è meglio conosciuta come la “festa del ceppo”, “el cèpp”, che viene rappresentata da un ciocco di legno, solitamente quercia (albero sacro) messo da parte durante l’anno. Sul focolare viene bruciato quanto resta del passato per renderlo fertile per il futuro. La famiglia attorno è in festa; si scambia dolci e doni come augurio di abbondanza; le stelle sono il presagio della luminosità più intensa del sole.
Acceso ritualmente, doveva bruciare fino a Santo Stefano; i carboni residui servivano per scopi magici: messo da parte e riacceso in giorni di temporali, grandine. La cenere in montagna doveva servire a tracciare sui monti delle linee che costituivano uno sbarramento magico per volpi e animali nocivi. Il pane tenuto fino a San Biagio, proteggeva la gola. L’acqua attinta a mezzanotte veniva spruzzata sulle pareti delle stanze. A mezzanotte si accendevano i falò in onore del Sole nascente, per festeggiarne il ritorno. Nei partecipanti al rito cresce la coscienza che l’anno è rinato. Qualcuno raccoglie le ceneri che spargerà nei campi a propiziare il raccolto.
L’albero rappresenta simbolicamente “l’albero della Vita”, “albero del Sole” “albero del mondo”, “Axis Mundi”, ovvero l’Asse del Mondo, il pilastro della Vita. Fino a non molto tempo fa e ancora oggi nei paesi scandinavi, era usanza piantare un albero alla nascita di ogni bambino.
L’albero è il simbolo dell’individuazione per l’Uomo. Ha le radici piantate per terra, la cima rivolta al cielo, i rami tesi orizzontalmente. Tre dimensioni che si collegano fra di loro in perfetta armonia. È radicato nella storia in quanto le sue radici conoscono tutto perché sotterranee e misteriose, è proteso verso l’alto, in aria, rivolto ai valori, allo spirito; proteso e diramato per il mondo in cerca di contatti, legami, esperienze. Nello sviluppo equilibrato delle tre dimensioni l’unità dell’Uomo si può leggere nell’immagine dell’albero. Simbolo di questo periodo, è il Vischio, pianta parassitaria delle Querce e Robinie, sacra ai druidi perché collegato direttamente col Cielo, con le forze divine.

“Cavara, cavara
del cincirincin bell,
senza còa
e senza pell”…
Ero ancora bambino, circa cinque anni, in tempo di guerra quando, alla vigilia di quel Natale fui portato, a piedi, in mezzo ai prati ed ai boschi innevati; a Schieppo (Schèpp) località presso Ponte Lambro, lungo il sentiero che portava a Proserpio, meta di pellegrinaggio nel periodo pasquale.
Giunti nella fattoria di uno stretto parente, cominciai a giocare presso l’ampio camino dove ardeva un grosso ciocco di quercia, con i miei numerosi cuginetti, eccitati dall’atmosfera natalizia piena di magia e di misteri.
Iniziò a nevicare così forte che fu deciso dai grandi di rimanere a dormire quella notte: l’indomani avrebbe smesso di nevicare, permettendogli di rientrare al paese.
Consumata la legna nel camino, il fuoco ormai spento, la brace messa nello “scaldenn” per la notte, venne deciso di trasferirsi tutti nella stalla: si usava ancora passare parte delle serate d’inverno in compagnia di mucche, cavalli, pecore, capre, cani e gatti; tutti uniti nel tepore naturale della stalla.
Correndo veloci nella neve sempre più alta, entrammo nella stalla e noi bambini ci mettemmo vicino alla mucca più anziana, enorme, che alitava in viso aria calda e profumata: una nonna e le altre donne accanto a loro a lavorare a maglia.
Gli uomini, dal lato dei cavalli discutevano animatamente e bevevano a lunghi sorsi dalla ciotola di coccio, “ul ragètt”, vino aspro novello, ricavato principalmente dalle uve fragoline (americana) e dal Clinto, passandosela di bocca in bocca.
Ad un certo punto la nonna prese a raccontare storie di fate, folletti, gnomi che ancora popolavano il bosco vicino alla cascina.
Poi parlò sempre più basso, con voce sempre più cupa, dei diavoli e delle streghe: noi bambini tremavamo eccitatissimi nel sentire storie così terribili, mentre il fuori il vento ululava, e noi eravamo al caldo ben protetti.
Ad un tratto si fece un silenzio irreale e si sentì uno scalpitare sinistro e tremendo, un tonfo ed un cozzo contro la porta della stalla.
Nessuno dei grandi si scomponeva: noi bambini, invece, ci stringevamo alle sottane delle donne mentre la nonna, appoggiato in grembo il lavoro a maglia, agitando le braccia a mulinello, declamò a grande voce:
«Càvara,
Càvara del Cincirincin Bell,
senza còa e senza pell,
con la pell
vòltada in còo:
vegn de dentar: ta mangiaròo»
Minaccia estrema, la nonna in quel momento sembrava essa «stessa una enorme capra nera, dagli occhi di bragia, che avrebbe addentato ciascuno di loro, sol che l’avessero meritato per il loro cattivo comportamento…
La Càvara del Cincirincin Bell era, senza dubbio, una non lontana parente della mitica Heidhrunn, dell’Edda Germanica.
Heidrunn, la gigantesca capra che, appoggiata con le zampe posteriori sul tetto del Valhalla, brucava le foglie del pino Loradhr, epigono del «Frassino del Mondo» mentre abbeverava con l’idromele sgorgante a fiotti dalle sue grandi poppe gli Einheriar, gli eroi guerrieri che, con le loro magnifiche gesta, avevano meritato di salire al Valhalla.
Capra del Cincirincin Bell, femmina del Caprone…
…La Luna di Capricorno: la Luna Nuova degli eroi che salivano al Valhalla attraverso la «Porta degli Dei».
La Luna Piena di Capricorno, in esilio, strumento magico a disposizione per potenziare le opere malefiche delle streghe nei boschi della Brianza, nei boschi della Sassonia, nei boschi della verde Irlanda…
…Càvara,
Càvara
del Cincirincin Bell, …
(tratto dal libro “Le Tradizioni dimenticate” di Carlo Paredi disponibile su Amazon a questo link)
Emanuela Trevisan Ghiringhelli
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