Per me è quasi un rito. Accarezzo la copertina rossa del mio Moleskine formato XL, scorro un pò tra le dita l’elastico, percependone le sottili righe, quindi lo apro alla pagina indicata dal sottile segnalibro in stoffa.
Scelgo il mio attrezzo di lavoro, devo sentirmi completamente a mio agio impugnando la penna, come fosse un’appendice naturale del mio corpo, in completa sintonia.
Correggo la postura sulla sedia, rilasso le spalle, mi inclino leggermente verso il taccuino appoggiandovi l’avambraccio, la mano sinistra impugna la penna e la destra, dopo aver accarezzato il foglio a righe, l’appoggio a palmo chiuso come mi insegnarono in prima elementare.
Chiudo gli occhi, faccio due respiri profondi e dopo aver scritto la data in alto a destra, cominciano ad apparire parole scritte con l’inchiostro blu, il colore che prediligo nei mesi primaverili ed estivi.
Lentamente le parole prendono forma e riempiono le righe con i miei pensieri più intimi, quelli che arrivano dal cuore e non sono frutto di una riflessione. La mia mano fa scorrere la penna sul foglio come in una danza, sulle note di una melodia trasmessa dalla mia anima come in una sorta di meditazione Zen.
Ormai è diventato un rituale quotidiano quello di manoscrivere qualcosa, una necessità che sento di dover mettere in pratica per accrescere il mio stato di benessere.
Talvolta mi basta scrivere la lista della spesa e alcuni memorandum delle cose da fare per dar sfogo a quella pratica calligrafica che mi gratifica sin dall’infanzia.
Da ragazzina mi tenevo in contatto con le mie cugine Donna e Marie del Wisconsin e mio zio Joseph della California scrivendoci assiduamente, un modo per conoscerci meglio e rimanere in assiduo contatto nonostante la grande distanza che ci separava e non ci fossimo mai incontrati. Mi ero iscritta all’International Pen Friends, un’associazione che quest’anno celebrerà il 55° anniversario e per anni ho scambiato lunghe lettere con Alice, una mia coetanea inglese di Brighton e Joseph un ragazzo di Francoforte di qualche anno più grande, facendo diventare la corrispondenza con loro un rituale al quale non potevo rinunciare e un grande aiuto per imparare nuovi vocaboli d’inglese e tedesco.
Durante l’adolescenza e fino al matrimonio scrivevo lunghe lettere alla mia prima insegnante madrelingua di tedesco, Suor Maria Thoma, rispondendo ai suoi scritti nei quali mi invitava a parlare dei più svariati argomenti. Le sarò grata a vita per questa lunga corrispondenza che mi ha permesso di approfondire la conoscenza e migliorare notevolmente di questa lingua che adoro, una sorta di DAD degli anni ‘70 dove busta e francobollo sopperiva magnificamente alla mancanza di mezzi informatici. Ricordo che mi ritornava sempre una copia della mia lettera con eventuali correzioni o suggerimenti di vocaboli più idonei scritti con la biro rossa nella sua bellissima e ordinata calligrafia stile Sütterlin, il carattere tipografico corsivo ideato nel 1911 dall’omonimo ministro della cultura tedesco.
Da un paio di anni non c’è più quel fantastico scambio di lettere, durato oltre un quarto di secolo, con la mia cara amica Judith dell’Illinois. Ci raccontavamo di tutto condividendo anche i nostri migliori scatti, essendo entrambe appassionate di fotografia, finché un destino crudele l’ha resa prima ipovedente e quindi con molta rapidità è diventata purtroppo cieca.
Ora le scrivo solo alle feste comandate, allegando sempre al biglietto d’auguri una lettera manoscritta che un familiare le legge. Lei fa altrettanto, facendomi venire il magone quando leggo ciò che mi invia scritto a mano e firmato a suo nome dalla nipotina, la conferma che anche lei vuole mantenere sempre viva quel rituale che ci ha unito per tantissimi anni. Ora purtroppo ci scambiamo saltuariamente qualche messaggio di posta elettronica, quando la sua badante si occupa di gestire la sua corrispondenza, ma non è la stessa cosa, mi manca molto il nostro scambio di lettere.
Emanuela Trevisan Ghiringhelli
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