Ormai sono anni che non appena gli scaffali dei supermercati si svuotano dei dolcetti a forma di zucca di Halloween, si riempiono immediatamente di panettone e pandoro.
Nelle case di molte famiglie già a novembre si addobbano gli alberi di Natale, senza più rispettare la tradizione di attendere il giorno dell’Immacolata Concezione, festività alla quale è rimasta solo l’usanza di inaugurare la stagione sciistica.
Ormai il Natale è diventata principalmente una festa consumistica, a discapito del significato religioso sempre più latente. Una volta i bambini scrivevano la letterina a Gesù Bambino per chiedere i doni, spodestato da qualche decennio dal simpatico e pasciuto Babbo Natale, o Santa Claus, ovvero il personaggio fantastico di origine olandese Sinterklaas, che deriva da San Nicola. La trasformazione in Babbo Natale la si deve a Clement Clarke Moore, scrittore di New York, che nel 1823 scrisse la poesia A visit from Saint Nicholas, rappresentando il santo di origine anatolica come un elfo pasciuto, con barba bianca, vestiti rossi orlati di pelliccia, alla guida di una slitta trainata da renne sulla quale trasportava di un sacco pieno di giocattoli. Nel 1862 fu poi l’illustratore Thomas Nast a raffigurarlo sulla rivista statunitense Harper’s Weekly, con giacca rossa, barba bianca e stivali.
Anche i bigliettini augurali, tradizionali o virtuali, stanno sempre più lasciando la scritta Buon Natale a favore di un asettico Buone Feste, o peggio ancora di un anglofono e globalizzato Season’s Greetings.
Quanta nostalgia del Natale di una volta, la magia del giorno che celebrava la nascita di Gesù Bambino. Il tradizionale pranzo con l’insalata russa casalinga per antipasto, ravioli in brodo, bollito misto con la mostarda e salsa verde, ha lasciato spazio a costose portate stravaganti e luculliane. Anche la chiesa sta modificando la benedizione natalizia delle case, spesso non più a cura del parroco ma di laici muniti di una bottiglietta di acqua santa da lasciare ad ogni famiglia.
Oggi oltreoceano si celebra il Giorno del Ringraziamento, una festa cristiana per dimostrare gratitudine verso Dio per quanto ricevuto durante l’anno trascorso, festeggiando con il tradizionale tacchino cucinato al forno. Da circa un secolo anche questa ricorrenza ha un risvolto consumistico, quando nel 1924 la catena della grande distribuzione Macy’s, organizzò a New York il venerdì successivo al Thanksgiving una vera e propria parata per celebrare l’inizio dello shopping natalizio, sfociato negli anni ’80 nel Black Friday, diventato ormai un appuntamento mondiale alla corsa agli acquisti a prezzi più o meno vantaggiosi.
Da lunedì entreranno in scena i calendari dell’avvento, nati in Germania alla fine ‘800 con l’usanza di preparare 24 piccoli pacchettini da scartare dal primo dicembre alla vigilia di Natale, in attesa della nascita di Gesù. Nel 1908 l’editore protestante tedesco Gerhard Lang di Maulbronn pensò di tramutare questa tradizione in un calendario con un diverso disegno per ogni giorno, che l’anno successivo trasformò in finestrelle da aprire e nelle quali si trovavano angioletti da assemblare e per ultimo Gesù Bambino.
Ora i calendari dell’avvento più gettonati sono quelli proposti nei supermercati e pubblicizzati dai mass media, con dolcetti e cioccolatini celati in ognuna delle 24 finestrelle.
E così da un pò di anni a questa parte, per me il 25 dicembre è un giorno come un altro, senza pranzi succulenti ma una semplice pietanza tradizionale, qualche presepe in giro per casa, un piccolo alberello spartano in legno, una fila di luci sul balcone, pochissimi regali da fare e da ricevere. Non è più il Natale di una volta e tanto meno ci renderà più buoni anche in tempo di Covid.
Emanuela Trevisan Ghiringhelli
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