Ieri sera mi sono goduta una splendida rappresentazione de La Traviata e, una volta tanto, sono grata alla Rai per averla trasmessa in prima serata. Anche se sono fermamente convinta che la regia delle opere liriche debba sempre ricalcare fedelmente le ambientazioni originali del libretto, ho apprezzato molto il lavoro svolto da Mario Martone che ha saputo amalgamare in modo impeccabile le riprese teatrali, rendendole quasi cinematografiche per una platea, purtroppo, solo televisiva.
Il grande Coro dell’Opera di Roma, diretto dal maestro Roberto Gabbiani e il Corpo di Ballo, diretto da Eleonora Abbagnato con le coreografie di Michela Lucenti, penso abbiano espresso una vera e propria magia con il Chœur des bohémiennes. Ho trovato superlativa la soprano Lisette Oropesa, che ha interpretato Violetta, un plauso al tenore Saimir Pirgu che ha vestito i panni di Alfredo, a suo padre Giorgio Germont, il baritono Roberto Frontali e non da ultimo all’orchestra diretta dal Maestro Daniele Gatti.
L’ho canticchiata in falsetto, arie che avevo imparato da bambina, quella la musica verdiana è stata prima la mia ninna nanna poi una presenza quotidiana nella mia infanzia, facendomi crescere sempre più l’amore per il compositore di Busseto. La passione per la musica classica e operistica me l’aveva trasmessa zio Alfredo con il quale ho condiviso i primi otto anni della mia vita. Sin da bambina mi aveva insegnato i cori verdiani, del Nabucco (Và pensiero), de I lombardi alla Prima Crociata (O Signore, dal tetto natio), de La Traviata (Noi siamo zingarelle) e il coro di zingari de Il Trovatore, poesie in meravigliosa musica. Ma non mi ero limitata ad ascoltare le opere di Giuseppe Verdi, bensì avevo letto più volte il libro sulla sua vita a firma di Luigi Orsini che faceva bella mostra nella ricca biblioteca di mio zio. Alla fine avevo imparato quasi a memoria la storia del compositore, al punto che in seconda media, nel 1972, avevo scritto a braccio un compito in classe a tema libero, dedicandolo alla vita del musicista parmense e che ho scovato tempo fa in un cassetto e che voglio ricordare trascrivendolo fedelmente:
Alle Roncole di Busseto, nel magnifico quadro di un dolce autunno, da una drogheria si udivano i brindisi augurali ad una giovane e dolce donna, prossima a diventare madre. Questi paesani le auguravano molto festosamente che il nascituro fosse un maschietto e così fu.
Infatti la mattina del giorno 10 ottobre 1813, San Donnino patrono delle Roncole, la giovane donna dette alla luce un bambino al quale fu dato il nome di Giuseppe. Era molto buono e fin dalla tenera età di cinque anni, manifestò il suo interesse per la musica.
Quando fu più grandicello, l’organista della chiesa iniziò ad impartirgli lezioni, finché a dodici anni fu in grado di sostituirlo in alcune funzioni religiose. Conobbe così un certo Signor Barezzi, che gli promise di fargli perfezionare gli studi al Conservatorio di Milano, ma quando iniziò a studiare nel capoluogo gli insegnanti lo trascurarono in quanto proveniente da un paesino oltretutto non lombardo e da una famiglia di povere origini. Quando Giuseppe si accorse di questo, lasciò a malincuore il Conservatorio e continuò gli studi per suo conto.
Nel 1839 compose la sua prima opera, Oberto Conte di San Bonifacio e dopo si sposò con una giovane e bella donna, dolce come sua madre, di nome Margherita Barezzi, figlia di quel signore che aiutò molto Verdi in gioventù.
Alcuni anni dopo Giuseppe divenne padre di un bellissimo bambino, nato con un tragico destino: non ancora giunto nel cuore della sua fanciullezza morì. Fu un dolore grandissimo che colpì questa piccola famigliola.
Verdi, quando vide che la prima opera ebbe assai successo, non si scoraggiò nonostante il dolore e l’amarezza che portava nel cuore, pieno di buona volontà e incoraggiato da sua moglie, che per lui era come un angelo custode, si mise nuovamente a comporre.
Giuseppe non volle procurare altre amarezze alle moglie, rivelandole che aveva un debito con colui che gli forniva i libretti delle opere, un certo Solera. Margherita un giorno si recò da lui e le rivelò il segreto. Per amore del marito volle saldare il debito che avrebbe potuto rovinargli la carriera e decise di vendere tutti i gioielli.
Era una notte d’inverno, nevicava, c’era vento e Margherita, avvolta in un mantello, corse per le strade di Milano per recarsi dal gioielliere che le ritirò i gioielli in cambio di soldi. Passò poi da Solera e saldò il debito. Tornando a casa, a pochi metri dalla sua abitazione svenne. La trovò poco dopo Giuseppe di ritorno da una cena dove conobbe una soprano, Giuseppina Strepponi, che s’innamorò di lui.
Pieno di premure, Verdi porto la moglie in casa, l’adagiò sul letto e chiamò il medico, che dopo averla visitata, dette una bruttissima notizia a papà Barezzi e a Giuseppe: aveva una pesantissima broncopolmonite che le lasciava poco tempo di vita.
I giorni passavano e quel brutto momento si avvicinava. Venne la sera in cui Verdi presentò la sua seconda opera, Un giorno di regno. Prima di uscire di casa rassicurò il suo amatissimo angelo che stava per andarsene in paradiso che tutto il mondo avrebbe parlato della sua opera, ma non fu così. Infatti alla fine della rappresentazione ci furono fischi e parolacce. Umiliato, Giuseppe torno a casa e disse a Margherita che tutti gli spettatori gli chiesero il bis e che in poco tempo la sua opera avrebbe raggiunto tutto il mondo. Ma non era vero.
Subito dopo, con voce tremante e le lacrime agli occhi Margherita gli disse: “questa fede la darai a quella donna che sarà degna del mio posto” e spirò.
Verdi pensò di essere finito e s’impoverì sempre più.
Una sera di vento, mentre passeggiava per dimenticare, vide una vecchietta che vendeva castagne e gliene chiese qualcuna in cambio della sua sciarpa, ma la poveretta comprese la situazione in cui era Verdi e gliele regalò.
Giunto quasi a casa, dai una carrozza scese Giuseppina Strepponi, che dopo avergli fatto le condoglianze, gli propose di comporre un’opera, consegnandogli un libretto di Solera con in titolo di Nabuccodonosor. Scoraggiato respinse l’offerta. Venne ancora incoraggiato e accettò senza alcuna speranza di successo.
A casa sua, vicino al piano, gli venne l’ispirazione ed in poco tempo fu data alla Scala. C’era tanto pubblico e ci fu molto panico per Giuseppe, ma alla fine il sogno di Verdi per l’opera precedente si avverò per il Nabucco. Ci fu tanto baccano, che l’Imperatore seduto al palco d’onore, ricevette molti foglietti che inneggiavano alla libertà. Infuriato, ordinò di arrestare Verdi, ma Solera fece di tutto per salvarlo e pagò i danni.
Intanto la Strepponi, interprete quest’opera, s’innamorò sempre di più di Giuseppe ma lui la respinse.
Verdi venne invitato ad una festa da Gioacchini Rossini, dove il già noto musicista partecipava per festeggiare Verdi. Ci fu un lungo discorso tra di loro e il punto della conversazione fu l’opera rossiniana Otello, che non riscosse alcun successo. Verdi si fece dare il libretto da Arrigo Boito (che in realtà si chiamava Tobia Gorio) e la compose con successo e subito dopo Giuseppe si dette alla pazza gioia, innamorandosi anch’egli di Giuseppina Strepponi.
Trascorsero giorni felicissimi in bellissime città come Parigi, Roma, Firenze e nella campagna che circondava la casa di Verdi a Sant’Agata.
In seguito scrisse I Lombardi alla Prima Crociata, Un ballo in maschera, Il Trovatore, I Vespri Siciliani, La forza del destino, Rigoletto.
Passò il tempo e Giuseppina gli chiese di diventare suo marito e accettò. Ma quando papà Barezzi avvisò Giuseppe che dietro il suo amore c’era una brutta verità svelatagli dalla sorella, Verdi andò nel camerino della Strepponi e si fece raccontare tutto. Confessò di aver avuto un figlio da Solera, così si lasciarono.
Trascorsero giorni di tormento per entrambi, papà Barezzi andò a fare visita a Giuseppina e ci fu un lungo colloquio tra i due e alla fine capì che era veramente innamorata di Verdi.
Tornato a casa, disse a Giuseppe di tornare da lei, ma non volle. Quando si convinse, partì da Milano per recarsi a Parigi e quando arrivò trovò solo un libretto dal titolo La Traviata di Piave.
Chiese alla domestica dove fosse e gli disse che era partita. Si fermò a Parigi e compose l’opera tratta da quel libretto che venne data nel 1853 ed ebbe molto successo.
Quando Giuseppe andò in teatro la vide piangente accanto alla sorella, ma lei scappò. Non vi erano notti che passavano senza inquietudine, le notizie di successo non gli davano più gioia.
Confidò questa sua amarezza a papà Barezzi che cercò di aiutarlo, finché un giorno, quando non pensava più a lei, si trovò davanti Giuseppina, la sua gioia più grande.
Interpretò la sua nuova opera nei più grandi teatri del mondo, si sposarono e furono molto felici.
Fece molte composizioni sacre come l’Ave Maria, Sabat mater, Laudi a maria, Te Deum.
A sessant’anni compose per la morte di Alessandro manzoni la Messa di Requiem, che venne data per la prima volta nel 1874 in San Marco a Milano.
La sua ultima opera fu il Falstaff che compose a 81 anni e venne data alla Scala ed ebbe molto successo.
Morì a Milano il 27 gennaio 1901, fu un lutto per tutta la nazione. Le sue spoglie vennero tumulate nella casa di Riposo per vecchi musicisti che lui stesso fece costruire, dando l’ultima prova che la sua bontà era grande quanto l’ingegno.
Al suo funerale venne sparso del fieno sul percorso dalla sua casa al cimitero, in modo che il carro funebre non facesse rumore e disturbasse il sonno del musicista.
Anche per il centenario dell’apertura del Canale di Suez nel 1969 venne rappresenta l’Aida che Verde compose per la sua inaugurazione.
Ancora oggi Giuseppe Verdi viene ricordato per le sue opere e per aver liberato il melodramma italiano dai convenzionalismi settecenteschi.
Rileggendolo e ricopiando questo tema di 1289 parole, mi sono stupita di come una ragazzina dodicenne potesse avere come idolo quello che reputo il più grande compositore italiano, al punto di conoscerne a memoria la vita, oltre al suo grande patrimonio musicale che ci ha lasciato in eredità, quest’ultimo sempre vivido nella mia mente.
Caro zio Alfredo, ti sarò sempre grata per avermi insegnato ad ascoltare e amare la musica classica e operistica, facendola entrare in punta di piedi nella mia infanzia fino a farla diventare un punto cardine della mia vita. Mi auguro che si continui a proporre la cultura musicale, quella della musica immortale, dedicandole sempre più spazi nei media nazionali anche con guide all’ascolto che possano avvicinare anche i più giovani, perchè, parafrasando la citazione di Giuseppe Verdi, ascoltando l’antico sarà un progresso culturale.
Emanuela Trevisan Ghiringhelli
Penso che la cosa più fastidiosa sia la retorica di beatificazione del personaggio Giuseppe Verdi (dico personaggio perché dire musicista mi pare azzardato e irrispettoso per chi la musica la fa e la fece sul serio). Vedere deificato un semplice fenomeno mediatico, padre di tutti i vizi musicali italiani, orrendamente reazionario è veramente sconfortante (e non mi citate il suo pretenzioso Falstaff come finestra aperta sul ‘900, casomai come portone che finalmente chiude il dannoso ‘800). Ma purtroppo vale di più il giudizio di milioni di scimmie prostrate davanti al nulla; “bisogna amare Verdi altrimenti… (non lo capisci, sei “amuso”, termine privo di senso amato da un celebre e – ahimè – valido musicologo, ecc.). Quindi mangiamo escrementi, milioni di mosche non possono aver sbagliato, continuiamo a cercare attualità in un anacronismo come Giuseppe Verdi, ne abbiamo bisogno pur di non fare i conti col presente
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De gustibus non disputandum esse.
Simia in multis
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